C'è il prima e il dopo. Prima, fiammiferi, caviale, spazzolini da denti, vino, libri, scarpe erano prodotti distinti, più o meno etichettati. Oggi, tutti hanno impresso il codice a barre che abbassa quegli oggetti, piccoli e grandi, consueti o lussuosi, al rango di merce.
Ora, il libro, ai miei occhi, non dovrebbe essere una merce. Schiumo di rabbia nel vederlo sconciato da quella saracinesca che deturpa il retro di copertina, esibisce il trionfo dei «ragionieri», senza concessioni all'estetica. Possibile che nessun grafico sia riuscito a addolcirla, integrarla, mascherarla? (A ogni buon conto, Jean-Pie mi dice di averla vista trasformata in gabbia e Ochas in Partenone grazie a un tettuccio triangolare.) Personalmente, su un libro regalato, l'ho trasformata per due volte in zebra. E riesco benissimo a immaginarla anche inquadrata da due elefanti a mo' di fermalibri.
Se fossi di buon umore, potrei trovare un'aria lautréamontesca al codice a barre, «bello come l'incontro fortuito tra un registratore di cassa e un manoscritto» (cosa che, di fatto, è anche il libro). Ma, questo rapporto, voglio dimenticarlo quando leggo, altrimenti l'intimità fra autore e lettore ne viene perturbata. Eppure, questo richiamo al fatto che il libro è una lunga catena di collaborazione fra l'editore, il distributore e il libraio non è del tutto scostante. Tanto più che, di questa catena, faccio parte anch'io. Qui, forse, sta il busillis. Quando leggo, io non sono più un anello. Non voglio sapere niente dei pastrocchi degli approvvigionamenti, dei prezzi, della gestione delle rese. Tutte queste cose appartengono a un campo che non devo più conoscere. Nondimeno, sul retro della mia copertina si esibisce tutta quella contabilità con la stessa impudicizia di quelle giovani convulse che si truccano in metropolitana, fondotinta, cipria, fard, ombretto per le palpebre, mascara, rossetto, con tutte quelle smorfiette solitamente riservate allo specchio delle stanze da bagno.
Il codice a barre mi sbeffeggia con la medesima indecenza. Dietro le sue sbarre si svolgono gli stessi brutti maneggi che non riguardano nessuno. E poi, è funereo come un pezzo di velo da lutto sfilacciato, tetro come un falso Buren. Crudele cancello di fabbrica, evoca un universo concentrazionario, un frastuono di macchine timbracartellini, di muletti, di manutenzione. Perché non l'hanno fatto a forma di cascata, di sole, insomma di qualsiasi altra cosa che non sia quel graffio che marchia il lettore, lo riduce al ruolo di volgare consumatore prigioniero di un mercato?
Ora, il libro, ai miei occhi, non dovrebbe essere una merce. Schiumo di rabbia nel vederlo sconciato da quella saracinesca che deturpa il retro di copertina, esibisce il trionfo dei «ragionieri», senza concessioni all'estetica. Possibile che nessun grafico sia riuscito a addolcirla, integrarla, mascherarla? (A ogni buon conto, Jean-Pie mi dice di averla vista trasformata in gabbia e Ochas in Partenone grazie a un tettuccio triangolare.) Personalmente, su un libro regalato, l'ho trasformata per due volte in zebra. E riesco benissimo a immaginarla anche inquadrata da due elefanti a mo' di fermalibri.
Se fossi di buon umore, potrei trovare un'aria lautréamontesca al codice a barre, «bello come l'incontro fortuito tra un registratore di cassa e un manoscritto» (cosa che, di fatto, è anche il libro). Ma, questo rapporto, voglio dimenticarlo quando leggo, altrimenti l'intimità fra autore e lettore ne viene perturbata. Eppure, questo richiamo al fatto che il libro è una lunga catena di collaborazione fra l'editore, il distributore e il libraio non è del tutto scostante. Tanto più che, di questa catena, faccio parte anch'io. Qui, forse, sta il busillis. Quando leggo, io non sono più un anello. Non voglio sapere niente dei pastrocchi degli approvvigionamenti, dei prezzi, della gestione delle rese. Tutte queste cose appartengono a un campo che non devo più conoscere. Nondimeno, sul retro della mia copertina si esibisce tutta quella contabilità con la stessa impudicizia di quelle giovani convulse che si truccano in metropolitana, fondotinta, cipria, fard, ombretto per le palpebre, mascara, rossetto, con tutte quelle smorfiette solitamente riservate allo specchio delle stanze da bagno.
Il codice a barre mi sbeffeggia con la medesima indecenza. Dietro le sue sbarre si svolgono gli stessi brutti maneggi che non riguardano nessuno. E poi, è funereo come un pezzo di velo da lutto sfilacciato, tetro come un falso Buren. Crudele cancello di fabbrica, evoca un universo concentrazionario, un frastuono di macchine timbracartellini, di muletti, di manutenzione. Perché non l'hanno fatto a forma di cascata, di sole, insomma di qualsiasi altra cosa che non sia quel graffio che marchia il lettore, lo riduce al ruolo di volgare consumatore prigioniero di un mercato?
Annie François - La lettrice( par. Codice a barre)
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